mercoledì 23 giugno 2010

Meno sbarchi, più clandestini

Un anno fa, di questi tempi, l’Italia non faceva che parlare di clandestini. Il Pacchetto sicurezza voluto dal governo, che istituisce il reato di clandestinità e inasprisce le procedure di espulsione, veleggiava verso la ratifica parlamentare. In mare, erano appena cominciati i respingimenti, verso le coste libiche, dei barconi dei disperati diretti verso Lampedusa, la Sicilia, le nostre sponde meridionali. Clandestini, vade retro: all’opinione pubblica si recapitava il messaggio che il tempo degli ingressi selvaggi era finito, e che finalmente il problema stava per essere debellato.

Dodici mesi dopo, gli sbarchi dei clandestini sono crollati: appena 29 nei primi quattro mesi del 2010. Secondo stime del ministero dell’interno, gli ingressi complessivi sono passati da 150 a 50 mila persone: tre volte di meno. Eppure gli irregolari soggiornanti in Italia sono sempre di più. Secondo una ricerca dell’Università Cattolica di Milano, sono aumentati di 126 mila unità rispetto al 2009.

La contraddizione, naturalmente, è solo apparente. Ed è indotta dalla rappresentazione mediatica del fenomeno. Una rappresentazione distorta, per cui si crede che gli stranieri arrivino in Italia affidandosi ai trafficanti di uomini, che li imbarcano sulle carrette del mare o li nascondano sotto i tir provenienti dai Balcani. In realtà tutti gli esperti sanno che i viaggi della speranza riguardano solo il 10% degli immigrati. La stragrande maggioranza di loro giunge in Italia, molto più semplicemente, atterrando a Malpensa o a Fiumicino con un visto turistico, acquistato a volte legalmente, altre a caro prezzo da organizzazioni che ci lucrano. Una volta nel nostro paese, cercano un lavoro che trovano, naturalmente in nero, dopo qualche mese. Quindi, scaduto il visto e non potendo dimostrare di avere un impiego regolare, diventano automaticamente clandestini. Condizione in cui rimangono per anni, fino a quando non hanno la fortuna di passare dalle forche caudine di una sanatoria, mascherata da decreto flussi.

Clandestini ma integrati

Questa è anche la storia dei 544 mila immigrati clandestini stimati dai ricercatori della Cattolica: più del 10% della popolazione straniera in Italia, che all’inizio dell’anno è arrivata a superare i 5 milioni. La quota dei clandestini è ora sensibilmente superiore all’anno scorso, quando era il 9,1%. Una differenza che corrisponde appunto a 126 mila unità. Costoro non sono certo arrivati ieri. Infatti la ricerca spiega che in media si trovano in Italia da tre anni e mezzo e hanno varcato la frontiera, nella stragrande maggioranza dei casi, legalmente. Tecnicamente sarebbero, dunque, degli irregolari. Ma, come i clandestini, secondo le nuove disposizioni di legge, non avendo un permesso di soggiorno valido, non possono rimanere nel nostro paese. Dovrebbero, in teoria, fare fagotto e tornarsene a casa.

Invece accade il contrario. Perché in qualche modo trovano casa, e anche un lavoro. Infatti, nonostante il proclamato “giro di vite” (pure questo disposto dal Pacchetto), c’è sempre qualcuno pronto a offrire alloggio e impiego, ovviamente fuori da ogni regola e controllo. Sempre dalla ricerca della Cattolica, emerge che i cosiddetti clandestini, hanno nel 47,3% dei casi un’occupazione, addirittura “stabile e continuativa”.

«Gli sbarchi sulle coste fanno notizia perché sono eventi drammatici, ma rappresentano la punta dell’iceberg – spiega il professore di sociologia, Vincenzo Cesareo, che ha curato la pubblicazione e a Milano dirige l’Ismu, l’Istituto sulla multietnicità, tra i più accreditati centri di ricerca –. I clandestini sono soprattutto overstayer (persone che si trattengono più del tempo dovuto, ndr). Questi non si imbarcano certo in Libia. E per questo nell’ultimo anno non sono stati affatto interessati dai controlli sullo stretto di Sicilia, che hanno consentito di bloccare quelle rotte, sebbene a costi umani e anche economici molto alti».

Non avendo, nulla da temere dai respingimenti in mare – perché dal mare non arrivano – gli overstayer, irregolari, clandestini (o comunque li si voglia chiamare) potevano comunque essere scoraggiati dal Pacchetto sicurezza, che (approvato a luglio 2009) tra le altre cose ha trasformato la permanenza irregolare in Italia del cittadino straniero da semplice irregolarità amministrativa a reato punibile con un’ammenda, oltre che con l’espulsione.

In realtà «quel reato è stato un deterrente più simbolico che reale», taglia corto diplomaticamente il professor Cesareo. Un esempio può aiutare a comprendere che cosa significhi esattamente “simbolico”. Dal 16 settembre 2009, data in cui è entrato in vigore il reato di clandestinità, ad aprile 2010, i procedimenti pervenuti all’ufficio del Giudice di Pace di Milano (l’autorità competente in materia) sono stati 116. Di questi 63 sono arrivati a conclusione (tutti con condanna). Ma solo 2 (due!) hanno avuto come esito l’espulsione. Numeri leggermente imbarazzanti, nella città del coprifuoco in periferia, dei controlli a tappeto sulle linee dei bus frequentati dagli stranieri, dei quartieri a numero chiuso per gli immigrati, degli asili nido negati ai figli degli irregolari. Dunque, tanto rumore per nulla?

La politica dei due forni

«Sono numeri che non mi sorprendono affatto – commenta Maurizio Ambrosini, sociologo dell’immigrazione all’Università Statale di Milano –. C’è una politica immigratoria per i giornali e le televisioni, che è quella delle espulsioni e della faccia cattiva, e una politica praticata nel paese reale, che è quella delle sanatorie. A dispetto delle apparenze, vorrei ricordare che il più grande “regolarizzatore di clandestini” è proprio Berlusconi: le ultime più grandi sanatorie furono fatte dai suoi governi, nel 2002 e nel 2009, l’anno scorso (limitata a sole colf e badanti). Voglio dire, insomma, che c’è una distanza enorme tra quello che si dice e quello che effettivamente si fa sull’immigrazione. Ed è una differenza che si spiega facilmente. La politica delle espulsioni costa ed è molto complicata da attuare: bisogna compiere accertamenti sugli irregolari per capire da dove provengono, pagare gli agenti e i voli per riaccompagnarli in patria, cosa tra l’altro possibile solo se esiste un accordo con il paese di origine. La politica delle sanatorie, invece, consente l’emersione del lavoro nero e, dunque, offre l’opportunità di fare cassa. Questa strategia è più conveniente per le finanze statali, ma indigesta all’opinione pubblica. Almeno da quando la caccia al clandestino è diventato un argomento di consenso».

Un esempio della “politica dei due forni” è Verona, città indicata dal ministro dell’interno Roberto Maroni come modello d’integrazione. Nonostante le arcigne dichiarazioni pubbliche, proprio il sindaco leghista Flavio Tosi quest’inverno ha aperto i dormitori pubblici anche ai clandestini e stretto un patto di non belligeranza con la Caritas diocesana: l’ente ecclesiale continui a fare quello che ha sempre fatto per accogliere gli stranieri, irregolari compresi, ma senza troppi clamori. «Il sindaco fa il sindaco. Poi lascia fare ai funzionari dell’assessorato ai servizi sociali. E con loro il nostro rapporto è ottimo…», dichiara don Giuliano Ceschi, direttore della Caritas di Verona.

Nella città scaligera e nella sua produttiva e ricca provincia, ciò che rischia di far saltare il patto sociale su cui si regge anche l’integrazione della popolazione straniera non sono il “Pacchetto sicurezza” e la “tolleranza zero”, bensì la crisi economica. «Qui, purtroppo, le aziende chiudono e lasciano a casa italiani e immigrati senza distinzioni», osserva don Ceschi.

La crisi, grande deterrente

Dal capo opposto dello Stivale, a Trapani, il direttore della Caritas diocesana racconta la stessa cosa. «Gli sbarchi si sono quasi azzerati. Ma i clandestini non sono mica scomparsi. è successo, semmai, tutto il contrario», sostiene don Sergio Librizzi. Con la crisi economica che ha colpito il settore agricolo, gli immigrati disoccupati sono precipitati nel cono d’ombra della clandestinità. «Chi era impiegato nelle serre del Marsalese e del Ragusano è stato lasciato a casa. Niente contratto, niente permesso di soggiorno. Per costoro la sola chance rimane il lavoro nero, che in Sicilia assorbe già il 60% della forza lavoro impiegata nel settore agricolo. E che certo non aveva bisogno di essere incrementato ulteriormente».

Mille chilometri più a nord, lungo la Val d’Arno, gli immigrati stranieri venivano invece assunti con contratti a termine in vivai, aziende vinicole e cantieri. Finora erano sempre riusciti a passare da un impiego all’altro, rinnovando di volta in volta i documenti. Adesso, invece, il turnover si è interrotto. E i più deboli non sono più riusciti a rinnovare il permesso di soggiorno, ritrovandosi clandestini dopo anni dall’arrivo in Italia. «Molti sono “irregolari di ritorno” – afferma don Mauro Frasi, responsabile dell’area immigrazione delle Caritas della Toscana. –. Si tratta di uomini in genere nordafricani, in Italia anche da 10 e 15 anni, che improvvisamente si ritrovano senza lavoro e senza il diritto a rimanere. Questi di tornare a casa non ne vogliono sapere. Quindi rimangono qui. Ma non potendo più svolgere impieghi regolari, o vanno in nero oppure, i più disperati, delinquono. E siccome sono bischeri, finiscono pure dentro. L’altro giorno ne ho incontrato uno che è stato arrestato. Aveva rubato due salami al supermercato...».

La crisi, insomma, come unico vero deterrente all’immigrazione. Regolare, irregolare o clandestina che sia. «Abbiamo già segnali di ritorni nei paesi d’origine, soprattutto in Europa», conclude Cesareo

pubblicato su Scarp de' tenis, giugno 2010

Per saperne di più: www.scarpdetenis.it

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