martedì 5 ottobre 2010

Il matto dove lo metto?

Un senza dimora con disturbi psichiatrici, a Catania, costretto a vivere in una cabina dell’Enel abbandonata, sgomberato e in seguito persino multato “per danneggiamento di luogo pubblico”. Un altro clochard, a Milano, affetto da anni da una grave schizofrenia, rimpallato da un ospedale all’altro. Due casi drammatici accaduti, quest’estate, ai capi opposti della Penisola di fronte ai quali enti ed istituzioni hanno giocato un avvilente scaricabile. Due casi che sollevano la stessa domanda: chi si deve occupare dei matti che vivono in strada?

Figli di nessuno

La risposta, a rigor di legge, sarebbe semplicissima: dei senza dimora psichiatrici si fanno carico prima di tutto i servizi di salute mentale, le uniche strutture incardinate nel sistema sanitario nazionale dotate di professionisti in grado di effettuare diagnosi e approntare terapie. Poi certo gli psichiatri si potranno avvalere dell’aiuto di assistenti sociali ed educatori per rispondere ai bisogni materiali (casa e cibo) di queste persone che sono oltre che malate anche gravemente emarginate. Ma mai come in questo caso la teoria è distante dalla realtà.

«La cosa migliore che può accadere ad uno psicotico senza dimora è di finire, se c’è posto, in ospedale, nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, e poi tornare dopo 15 giorni di nuovo in mezzo alla strada– sostiene Ernesto Muggia, presidente onorario di Unasam, l’organismo che riunisce 150 associazioni di familiari di malati di mente. «Perché la verità – aggiunge sconsolato – è che questo sistema non funziona nemmeno per chi una casa e un parente più o meno prossimo ce l’ha. Figuriamoci se è in grado di occuparsi di chi è solo e non ha nemmeno un posto dove stare». Insomma un giudizio tranchant. Ma come è organizzato il sistema? Ed è vero che è così inefficiente?

La normativa prevede che ogni Azienda sanitaria istituisca il Dipartimento di salute mentale, vertice della struttura organizzativa, deputato a coordinare un’ampia rete di servizi. Di fatto, però, in Italia i Dsm sono solo 210. Per 167 il territorio di competenza coincide effettivamente con quello dell’azienda sanitaria locale, ma 103 (il 49%) servono una popolazione che può arrivare a 250mila abitanti e in altri 20 (9%) il bacino di utenza è di oltre 500 mila residenti. Tre Dsm servono addirittura una popolazione di oltre un milione di persone. Il panorama è dunque molto disomogeneo. Se poi si scende per i rami dell’organizzazione, la situazione diventa ancora più complicata. Nello scalino immediatamente più basso ci sono i Centri di salute mentale ( o Centri Psico Sociali, Cps, in Lombardia), vale a dire i servizi di base più importanti. I Csm sono 707 distribuiti su tutto il territorio nazionale. Con l’eccezione, però, del Molise dove non sono mai stati attivati. Ma questo sarebbe solo un piccolo neo. « La questione vera è che i Csm operano in maniera molto differente gli uni dagli altri» avverte Giovanna Del Giudice, psichiatra triestina dell’equipe di Basaglia. Secondo uno studio realizzato dal Dipartimento di salute mentale di Trieste, uno dei pochi così completo e esaustivo, “gli standard previsti dalle legge sono soddisfatti in una piccola parte dei Csm italiani”. Le cose vanno bene in Friuli Venezia Giulia, in parte della Campania e in Sardegna. Qui, secondo la ricerca, i Csm sono aperti 24 ore al giorno, 7 giorni su sette e hanno a disposizione per il ricovero delle persone con cui entrano in contatto tra i 6 e gli 8 posti letto. Ma sono isole felici. Altrove, invece, gli orari di accesso al pubblico possono essere anche di sole 2 ore al giorno. Non solo. In 93 Csm occorre la prescrizione del medico, in 452 bisogna pagare un ticket. Per non parlare delle liste di attesa. “Una persona che ritiene di avere bisogno di un contatto specialistico non urgente deve attendere mediamente quasi 8 giorni, ma può capitare che aspetti anche 2 mesi e mezzo. Sempre secondo l’indagine degli allievi di Basaglia solo un Csm su tre effettua le visite domiciliari. In un sistema costruito in questo modo il senza dimora con malattia mentale non solo non entra, ma non riesce nemmeno a bussare alla porta di ingresso, perché per lui quella porta semplicemente non esiste. «Avendo perso la residenza, il senza tetto perde anche il diritto alle cure del medico di base, a meno che il Comune non gli riconosca una residenza anagrafica, obbligo di legge come è noto largamente disatteso dagli enti locali nel nostro Paese – spiega Raffaele Gnocchi dell’area grave emarginazione di Caritas Ambrosiana -. Quindi, anche se il senza dimora fosse così consapevole da capire che ha un problema e che deve chiedere aiuto, non potrebbe avere accesso a tutti gli altri servizi». Insomma è fuori al primo turno. Di più, non partecipa nemmeno al campionato. E come lui, in realtà, rimangono esclusi centinaia di altri cittadini anche in condizioni sociali ben più favorevoli.

«Oltre 30 anni fa la riforma voluta da Basaglia introdusse giustamente la libertà di cura del malato con l’intento di superare la logica costrittiva dei manicomi - osserva Paola Soncini responsabile dell’area salute mentale di Caritas Ambrosiana -. Questo sacrosanto principio nella prassi è divenuto un alibi. Tranne rarissimi casi gli psichiatri dei servizi di salute mentale aspettano che i malati si rivolgano spontaneamente a loro; pochissimi, invece, escono dai propri ambulatori per offrire aiuto a chi ne ha bisogno. In questo modo, però, il risultato è che vengono abbandonati a loro stessi non solo i senza dimora ma anche i familiari di quei sofferenti psichici che rifiutano ogni cura». I Dipartimenti di salute mentale si difendono sostenendo che non hanno risorse sufficienti. Ed hanno certamente ragione se è vero che nel nostro paese c’è solo un operatore ogni 5mila abitanti, invece di uno ogni 1.500, il 30% in meno insomma di quello che aveva previsto lo psichiatra triestino nella riforma che porta il suo nome, come hanno sottolineato quest’anno i suoi allievi in un convegno nella città giuliana. «Ma la questione è anche culturale, perché là dove lo si è voluto, il modo per intervenire lo si è trovato», osserva la Soncini.

Psichiatria di strada

Proprio a Milano, ad esempio, grazie agli appelli dell’allora arcivescovo Carlo Maria Marini, agli inizi degli anni 2000 si riuscì a portare l’assistenza specializzata e professionale ai senza dimora con disturbi psichiatrici là dove questi si trovavano. Ancora oggi il progetto Diogene è uno dei pochissimi interventi di psichiatria di strada ancora operativi nel nostro Paese, riconosciuto anche dell’Organizzazione mondiale della sanità come progetto pilota per la presa in cura degli homeless con disagio psichico. Ogni settimana due unità di strada composte da un educatore e uno psichiatra assicurano almeno due uscite serali nelle zone della città dove si concentrano i casi di grave emarginazione: lungo i binari della stazione, su marciapiedi del centro cittadino.

Nei tre anni di sperimentazione gli operatori di Diogene, grazie alla collaborazione degli altri operatori della Casa della carità, di Caritas Ambrosiana, dei medici del Dipartimento di salute mentale dell’ospedale di Niguarda e del San Gerardo di Monza, hanno offerto aiuto a 130 persone, più della metà affetti da psicosi, quindi dai disturbi psichiatrici più gravi. «Il nostro più grande risultato è stato dimostrare che si possono curare le persone anche stando in strada», commenta la responsabile Vita Casavola, operatrice della Casa della Carità.

La scorciatoia del Tso

Il modello milanese non ha avuto tuttavia emuli. Nel resto della Penisola ci sono solo piccole iniziative dovute in gran parte solo alla buona volontà di qualche prete e di qualche piccola organizzazione di volontariato spesso legata alla Caritas diocesana. Progetti tanto piccoli e locali che è difficile recensire. In un panorama così desolante, non è un caso che periodicamente riaffiori la tentazione di affidarsi a misure coercitive. Alla commissione affari sociali della Camera giace una proposta di legge che unificando altri progetti introduce il Tsop: il trattamento sanitario obbligatorio prolungato. In pratica, la persona che rifiuta le cure sarebbe obbligata a sottoporsi ad una terapia di almeno 6 mesi in una struttura ad hoc. «Mentre oggi possiamo intervenire con i ricoveri coatti solo nella fase di acuzie della malattia, con il trattamento sanitario necessario o Tsop potremmo occuparci anche dei pazienti cronici che spesso proprio a causa della malattia non curata diventano clochard» sostiene il vicepreside della commissione, il deputato Carlo Ciccioli intenzionato a portare il testo in discussione entro la fine dell’anno. La proposta però non convince una larghissima maggioranza di psichiatri, che contestano il valore terapeutico di cure obbligate, e non piace nemmeno, tranne poche eccezioni, alle associazioni di familiari, che avanzano il sospetto che dietro questa riforma si nasconda un regalo alle case di cura private.

«Mi sembra una scorciatoia che in mano a sindaci sceriffo può diventare anche molto pericolosa», commenta Paolo Pezzana, presidente della Federazione degli organismi per i senza dimora. Il rischio di abusi non è poi cosi peregrino, se qualche settimana fa il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha auspicato «un trattamento sanitario realmente obbligatorio che tolga dalla vie delle città i vagabondi». Tutti i vagabondi, beninteso A prescindere dalla loro sanità mentale.