venerdì 25 giugno 2010

Libere di prostituirsi. Anche con un braccio rotto

Grazie alle intercettazioni telefoniche, il gruppo dei carabinieri di Monza, è riuscito nei giorni scorsi a smascherare una banda di rumeni che controllava il giro di prostituzione su viale Sarca e viale Monza, zona nord Milano. Dalle conversazioni raccolte dagli uomini dell'arma emergono storie di una violenza agghiacciante. Pare che una delle ragazze fosse stata costretta a vendersi sulla strada anche con un braccio ingessato. Un'altra sarebbe stata tenuta sul balcone di casa a meno sette gradi, con i piedi in una bacinella d'acqua. Uno degli aguzzini raccomanda però all'altro di essere più prudente. "Riempila pura di botte, ma in bagno. Così ti fai scoprire", gli suggerisce. Bene, queste sarebbero le lucciole che, secondo l'opinione corrente, scelgono liberamente di fare sesso a pagamento, di dedicarsi, per libera scelta, ad un mestiere come un altro, anzi più redditizio di tanti altri, le ragazze di vita colpevoli di attentare al pubblico decoro e per questo multate, tra l'altro - dati del Comune di Milano - 10 volte di più dei loro clienti. Strano rapporto davvero, dal momento che se è vero che per ogni prostituta ci sono almeno 10 "utilizzatori" - per usare un'espressione venuta in auge qualche tempo fa - quella proporzione dovrebbe essere almeno rovesciata.
I volontari che sulla strada avvicinano le ragazze da sempre denunciano il loro sfruttamento. Ma sempre meno vengono ascoltati. Secondo Caritas Ambrosiana sono 7 mila le donne vittime di tratta in Lombardia. Le rumene rappresentano il 30% e il loro numero si è negli ultimi 7 anni decuplicato. Subito dopo vengono le nigeriane, che continuano invece ad essere la maggioranza in provincia, perché essendo per lo più immigrate clandestine, se fermate, rischiano di finire nei Centri di identificazione per il rimpatrio, quindi le organizzazioni che le controllano, per non rischiare di perderle, le hanno trasferite in luoghi meno visibili. Si tratta spesso di adolescenti: l'età media si aggira sui 24 anni (il che significa che molte sono minorenni) .
A parere di suor Claudia Biondi, responsabile dell'area grave emarginazione di Caritas Ambrosiana, di fronte al giro di vite delle forze dell'ordine, il racket ha reagito in due modi: ha allentato un po' la morsa per conquistarsi il consenso delle ragazze, oppure ha stretto ancora di più il giogo, per annichilire ogni capacità di reazione. Non è un caso che sono sempre meno le donne che trovano il coraggio di denunciare i loro aguzzini e di abbandonare la strada: appena il 10% chiede di essere aiutata a farlo.
Per approfondire: www.caritas.it

mercoledì 23 giugno 2010

Meno sbarchi, più clandestini

Un anno fa, di questi tempi, l’Italia non faceva che parlare di clandestini. Il Pacchetto sicurezza voluto dal governo, che istituisce il reato di clandestinità e inasprisce le procedure di espulsione, veleggiava verso la ratifica parlamentare. In mare, erano appena cominciati i respingimenti, verso le coste libiche, dei barconi dei disperati diretti verso Lampedusa, la Sicilia, le nostre sponde meridionali. Clandestini, vade retro: all’opinione pubblica si recapitava il messaggio che il tempo degli ingressi selvaggi era finito, e che finalmente il problema stava per essere debellato.

Dodici mesi dopo, gli sbarchi dei clandestini sono crollati: appena 29 nei primi quattro mesi del 2010. Secondo stime del ministero dell’interno, gli ingressi complessivi sono passati da 150 a 50 mila persone: tre volte di meno. Eppure gli irregolari soggiornanti in Italia sono sempre di più. Secondo una ricerca dell’Università Cattolica di Milano, sono aumentati di 126 mila unità rispetto al 2009.

La contraddizione, naturalmente, è solo apparente. Ed è indotta dalla rappresentazione mediatica del fenomeno. Una rappresentazione distorta, per cui si crede che gli stranieri arrivino in Italia affidandosi ai trafficanti di uomini, che li imbarcano sulle carrette del mare o li nascondano sotto i tir provenienti dai Balcani. In realtà tutti gli esperti sanno che i viaggi della speranza riguardano solo il 10% degli immigrati. La stragrande maggioranza di loro giunge in Italia, molto più semplicemente, atterrando a Malpensa o a Fiumicino con un visto turistico, acquistato a volte legalmente, altre a caro prezzo da organizzazioni che ci lucrano. Una volta nel nostro paese, cercano un lavoro che trovano, naturalmente in nero, dopo qualche mese. Quindi, scaduto il visto e non potendo dimostrare di avere un impiego regolare, diventano automaticamente clandestini. Condizione in cui rimangono per anni, fino a quando non hanno la fortuna di passare dalle forche caudine di una sanatoria, mascherata da decreto flussi.

Clandestini ma integrati

Questa è anche la storia dei 544 mila immigrati clandestini stimati dai ricercatori della Cattolica: più del 10% della popolazione straniera in Italia, che all’inizio dell’anno è arrivata a superare i 5 milioni. La quota dei clandestini è ora sensibilmente superiore all’anno scorso, quando era il 9,1%. Una differenza che corrisponde appunto a 126 mila unità. Costoro non sono certo arrivati ieri. Infatti la ricerca spiega che in media si trovano in Italia da tre anni e mezzo e hanno varcato la frontiera, nella stragrande maggioranza dei casi, legalmente. Tecnicamente sarebbero, dunque, degli irregolari. Ma, come i clandestini, secondo le nuove disposizioni di legge, non avendo un permesso di soggiorno valido, non possono rimanere nel nostro paese. Dovrebbero, in teoria, fare fagotto e tornarsene a casa.

Invece accade il contrario. Perché in qualche modo trovano casa, e anche un lavoro. Infatti, nonostante il proclamato “giro di vite” (pure questo disposto dal Pacchetto), c’è sempre qualcuno pronto a offrire alloggio e impiego, ovviamente fuori da ogni regola e controllo. Sempre dalla ricerca della Cattolica, emerge che i cosiddetti clandestini, hanno nel 47,3% dei casi un’occupazione, addirittura “stabile e continuativa”.

«Gli sbarchi sulle coste fanno notizia perché sono eventi drammatici, ma rappresentano la punta dell’iceberg – spiega il professore di sociologia, Vincenzo Cesareo, che ha curato la pubblicazione e a Milano dirige l’Ismu, l’Istituto sulla multietnicità, tra i più accreditati centri di ricerca –. I clandestini sono soprattutto overstayer (persone che si trattengono più del tempo dovuto, ndr). Questi non si imbarcano certo in Libia. E per questo nell’ultimo anno non sono stati affatto interessati dai controlli sullo stretto di Sicilia, che hanno consentito di bloccare quelle rotte, sebbene a costi umani e anche economici molto alti».

Non avendo, nulla da temere dai respingimenti in mare – perché dal mare non arrivano – gli overstayer, irregolari, clandestini (o comunque li si voglia chiamare) potevano comunque essere scoraggiati dal Pacchetto sicurezza, che (approvato a luglio 2009) tra le altre cose ha trasformato la permanenza irregolare in Italia del cittadino straniero da semplice irregolarità amministrativa a reato punibile con un’ammenda, oltre che con l’espulsione.

In realtà «quel reato è stato un deterrente più simbolico che reale», taglia corto diplomaticamente il professor Cesareo. Un esempio può aiutare a comprendere che cosa significhi esattamente “simbolico”. Dal 16 settembre 2009, data in cui è entrato in vigore il reato di clandestinità, ad aprile 2010, i procedimenti pervenuti all’ufficio del Giudice di Pace di Milano (l’autorità competente in materia) sono stati 116. Di questi 63 sono arrivati a conclusione (tutti con condanna). Ma solo 2 (due!) hanno avuto come esito l’espulsione. Numeri leggermente imbarazzanti, nella città del coprifuoco in periferia, dei controlli a tappeto sulle linee dei bus frequentati dagli stranieri, dei quartieri a numero chiuso per gli immigrati, degli asili nido negati ai figli degli irregolari. Dunque, tanto rumore per nulla?

La politica dei due forni

«Sono numeri che non mi sorprendono affatto – commenta Maurizio Ambrosini, sociologo dell’immigrazione all’Università Statale di Milano –. C’è una politica immigratoria per i giornali e le televisioni, che è quella delle espulsioni e della faccia cattiva, e una politica praticata nel paese reale, che è quella delle sanatorie. A dispetto delle apparenze, vorrei ricordare che il più grande “regolarizzatore di clandestini” è proprio Berlusconi: le ultime più grandi sanatorie furono fatte dai suoi governi, nel 2002 e nel 2009, l’anno scorso (limitata a sole colf e badanti). Voglio dire, insomma, che c’è una distanza enorme tra quello che si dice e quello che effettivamente si fa sull’immigrazione. Ed è una differenza che si spiega facilmente. La politica delle espulsioni costa ed è molto complicata da attuare: bisogna compiere accertamenti sugli irregolari per capire da dove provengono, pagare gli agenti e i voli per riaccompagnarli in patria, cosa tra l’altro possibile solo se esiste un accordo con il paese di origine. La politica delle sanatorie, invece, consente l’emersione del lavoro nero e, dunque, offre l’opportunità di fare cassa. Questa strategia è più conveniente per le finanze statali, ma indigesta all’opinione pubblica. Almeno da quando la caccia al clandestino è diventato un argomento di consenso».

Un esempio della “politica dei due forni” è Verona, città indicata dal ministro dell’interno Roberto Maroni come modello d’integrazione. Nonostante le arcigne dichiarazioni pubbliche, proprio il sindaco leghista Flavio Tosi quest’inverno ha aperto i dormitori pubblici anche ai clandestini e stretto un patto di non belligeranza con la Caritas diocesana: l’ente ecclesiale continui a fare quello che ha sempre fatto per accogliere gli stranieri, irregolari compresi, ma senza troppi clamori. «Il sindaco fa il sindaco. Poi lascia fare ai funzionari dell’assessorato ai servizi sociali. E con loro il nostro rapporto è ottimo…», dichiara don Giuliano Ceschi, direttore della Caritas di Verona.

Nella città scaligera e nella sua produttiva e ricca provincia, ciò che rischia di far saltare il patto sociale su cui si regge anche l’integrazione della popolazione straniera non sono il “Pacchetto sicurezza” e la “tolleranza zero”, bensì la crisi economica. «Qui, purtroppo, le aziende chiudono e lasciano a casa italiani e immigrati senza distinzioni», osserva don Ceschi.

La crisi, grande deterrente

Dal capo opposto dello Stivale, a Trapani, il direttore della Caritas diocesana racconta la stessa cosa. «Gli sbarchi si sono quasi azzerati. Ma i clandestini non sono mica scomparsi. è successo, semmai, tutto il contrario», sostiene don Sergio Librizzi. Con la crisi economica che ha colpito il settore agricolo, gli immigrati disoccupati sono precipitati nel cono d’ombra della clandestinità. «Chi era impiegato nelle serre del Marsalese e del Ragusano è stato lasciato a casa. Niente contratto, niente permesso di soggiorno. Per costoro la sola chance rimane il lavoro nero, che in Sicilia assorbe già il 60% della forza lavoro impiegata nel settore agricolo. E che certo non aveva bisogno di essere incrementato ulteriormente».

Mille chilometri più a nord, lungo la Val d’Arno, gli immigrati stranieri venivano invece assunti con contratti a termine in vivai, aziende vinicole e cantieri. Finora erano sempre riusciti a passare da un impiego all’altro, rinnovando di volta in volta i documenti. Adesso, invece, il turnover si è interrotto. E i più deboli non sono più riusciti a rinnovare il permesso di soggiorno, ritrovandosi clandestini dopo anni dall’arrivo in Italia. «Molti sono “irregolari di ritorno” – afferma don Mauro Frasi, responsabile dell’area immigrazione delle Caritas della Toscana. –. Si tratta di uomini in genere nordafricani, in Italia anche da 10 e 15 anni, che improvvisamente si ritrovano senza lavoro e senza il diritto a rimanere. Questi di tornare a casa non ne vogliono sapere. Quindi rimangono qui. Ma non potendo più svolgere impieghi regolari, o vanno in nero oppure, i più disperati, delinquono. E siccome sono bischeri, finiscono pure dentro. L’altro giorno ne ho incontrato uno che è stato arrestato. Aveva rubato due salami al supermercato...».

La crisi, insomma, come unico vero deterrente all’immigrazione. Regolare, irregolare o clandestina che sia. «Abbiamo già segnali di ritorni nei paesi d’origine, soprattutto in Europa», conclude Cesareo

pubblicato su Scarp de' tenis, giugno 2010

Per saperne di più: www.scarpdetenis.it

venerdì 18 giugno 2010

A Timisoara, la fuga degli italiani lascia le fabbriche vuote

Le bandiere, italiana e rumena, sventolano, una accanto all’altra. E già a centinaia di metri si legge la scritta “Incontro”, stampata a caratteri cubitali. Dietro questo monumentale arco d’ingresso si sviluppa la più grande area industriale di Timişoara, realizzata da italiani, la società Incontro Prefabbricati, per l’appunto, costola rumena del gruppo Lombarda di Montichiari provincia di Brescia. A giudicare dal numero dei capannoni, alle 15.30, orario di fine turno, dovrebbe esserci un gran movimento. Invece, dai piazzali i pullman se ne vanno via mezzi vuoti. Tra i lavoratori mancano all’appello, infatti, sicuramente i novecento dipendenti della Technic Development, la fabbrica rumena del produttore italiano di scarpe Geox. A giugno del 2009 l’azienda che con un fatturato di oltre 35mililioni di euro realizzava il 5% della quota complessiva delle “scarpe che respirano” vendute nel modo, è stata ceduta alla Vt Manufacturing, un fornitore di Geox. Il proprietario, un italiano, Vincenzo Tagliaboschi si era impegnato a riassumere tutto il personale. Dopo quasi un anno, non c’è più nessuno. «I dipendenti Geox? Sono andati via tutti. Spariti.», allarga le braccia il custode.

L’uscita di scena di Mario Poletti Polegato, avvenuta senza grandi clamori, segna la fine di un’epoca. Con il suo arrivo in Romania, la delocalizzazione del distretto calzaturiero di Montebelluna, iniziato negli anni ’90, aveva fatto un salto di qualità.

«I produttori di scarpe veneti, soprattutto della provincia di Treviso, furono i primi ad arrivare, subito dopo il crollo del regime di Ceauşescu e l’apertura delle frontiere – spiega Alessandra Scroccaro, giovane ricercatrice veneta che per l’università di Montpellier sta studiando gli investimenti italiani nella regione –. Ma sono stati anche i primi ad andarsene». La fuga sarebbe cominciata, infatti, già tre anni fa, anche se i dati ufficiali mostrano, al contrario, un piccolo ma costante aumento delle imprese italiane. «Quei numeri non sono attendibili, perché comprendono anche società fasulle nate solo per operazioni immobiliari - sostiene Gianluca Testa, 49 anni, ex responsabile in Romania della fabbrica di elettrodomestici Zoppas, ora manager di un’azienda di elettronica italo-inglese. «La verità è che nel 2007 con l’ingresso in Europa della Romania, la manodopera qualificata è emigrata in Italia, Francia, Germania e i salari dei lavoratori rimasti nel loro paese sono aumentati. Chi era venuto qui in cerca forza lavoro a basso costo o ha chiuso o è andato altrove, in Ucraina, nella Repubblica moldava. Ora per Timişoara è il momento delle grandi multinazionali. Ma gli italiani non sono più della partita».

nella foto: un pullman davanti all'ex stabilimento Geox di Timisoara

pubblicato su Avvenire, 30 maggio 2010

Romania, in piazza contro i tagli più duri d'Europa

Lunedì la Romania si fermerà. Se i sindacati riusciranno a ripetere il successo della manifestazione del 19 maggio a Bucarest, la più grande mobilitazione dai tempi della rivoluzione dell’89, il 31 maggio il paese verrà paralizzato. Resteranno chiuse le scuole. Si bloccheranno i trasporti. Gli ospedali assicureranno solo i ricoveri di urgenza.

I rumeni protestano contro il piano di “lacrime e sangue” imposto dal governo. Misure drastiche che prevedono tra l’altro il taglio del 25% degli stipendi per i dipendenti pubblici e del 15% delle pensioni e dei sussidi, oltre al licenziamento di 70 mila statali, pari al 5% della forza lavoro impiegata nel sottore amministrativo. La manovra è tra le più dolorose tra tutte quelle approvate in queste settimane dai governi europei. Ma secondo il primo ministro del partito liberal democratico Emil Boc è necessaria per riportare il deficit sotto controllo. I risparmi sulla spesa pubblica che in questo modo si ricaveranno, consentirebbero, infatti, di far calare il deficit dal 9% del Pil al 6.8%. Requisito chiesto come condizione imprescindibile dal Fondo monetario internazionale per sbloccare una nuova tranche di finanziamenti (850 milioni di euro) senza la quale la Romania si avvierebbe sulla strada della bancarotta.

La cura da cavallo rischia però di salvare i bilanci dello stato dalla Sindrome Grecia ma, contemporaneamente, di stroncare il paese già stremato da una crisi economica che qui non ha certo risparmiato colpi. Il prodotto interno lordo è passato da un +7,1% nel 2008 a un -7,2% nel 2009. Un tracollo che ha lasciato sul tappeto tante vittime, soprattutto tra i lavoratori delle aziende manifatturiere, in particolare operai, ma anche piccoli imprenditori, in special modo quelli del settore edilizio, che avevano approfittato del “smania cementizia” degli anni passati. La disoccupazione, che nelle aree più produttive del paese – Bucarest e le province occidentali – era quasi scomparsa nel decennio scorso – è tornata a salire e a causa dei continui licenziamenti ha raggiunto all’inizio dell’anno il 10% circa della forza lavoro, corrispondente a quasi un milione di persone.

Così dopo i lavoratori del privato che hanno già pagato un conto salato, ora tocca agli impiegati del pubblico impiego: insegnanti, ferrovieri, dipendenti delle aziende pubbliche. Ma il piano del governo non piace, in realtà, a nessuno. Tutti hanno in famiglia almeno una persona che sarà direttamente coinvolta dai tagli: la nonna pensionata con la minima, 400 lei (100 euro), già al limite della sopravvivenza; la zia maestra che con 800 lei (200 euro) al mese campava solo grazie a qualche lavoretto in nero. Per questo i sindacati il 19 maggio non hanno avuto difficoltà a portare a Bucarest sotto le finestre del palazzo del governo 50 mila manifestanti (la Gendarmeria ha parlato in realtà di 30mila). Tanta folla così in Piaţa Victoriei non la si vedeva dai tempi delle deposizione di Ceauşescu. Sotto accusa è la sforbiciata indifferenziata che colpisce senza gradualità la busta paga dell’ultimo impiegato come quella del dirigente della pubblica amministrazione, che può arrivare a guadagnare cinque volte tanto. In realtà una maggiore equità sociale nella manovra, l’ha chiesta anche il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominque Strauss-Khan, che nei giorni scorsi, pur ribadendo la necessità di rimettere a posto i conti pubblici, ha suggerito una ricetta più soft fatta non solo di riduzioni di spesa ma anche di aumento di imposte sui rediti più alti, oggi molto favoriti da un sistema di tassazione che si regge su una “flat tax” del 16%, una sola aliquota dunque valida per tutti.

Tuttavia, la proposta di rivedere la tassazione è stata respinta senza mezzi termini. «Non è la scelta migliore per risolvere il problema», ha detto il presidente Traian Băsescu. «Se mantenessimo inalterata la spesa pubblica, avremo bisogno quest’anno di una crescita del 21% del Pil per coprirla». Una percentuale mai raggiunta nemmeno nei tempi più floridi post regime.

L’orientamento del governo è stata significativamente riassunta dal ministro alla finanze Sebastian Vladescu in un battuta: «I ricchi sono quelli che assumono i rischi, che innovano e che, in fin dei conti, creano ricchezza da ridistribuire». La via per la salvezza della Romania è dunque strettissima. O l’amaro calice dei tagli. O il default dello stato. In mezzo c’è, però, una crisi sociale che rischia di esplodere.

Pubblicato su Avvenire, 30 maggio 2010