mercoledì 3 ottobre 2012

Ospedali psichiatrici giudiziari, l'orrore senza fine


Pietro Terlizzi ha il corpo cosparso di ustioni. A procurargliele sono stati i suoi compagni di “stanza”. Reparto 8-bis dell’ospedale psichiatrico di Aversa. Per motivi in corso di accertamento, la notte del 7 giugno scorso lo hanno aggredito, picchiato ed infine gli hanno dato fuoco usando una bomboletta del gas. Dopo un mese, i medici del nosocomio San Sebastiano di Caserta, dove è stato ricoverato d’urgenza, non lo hanno ancora dimesso.
Il 2 luglio, A Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, un altro internato si è impiccato. Si chiamava Antonio San Filippo e aveva 47 anni.  Secondo la norma, l’uomo era “dimissibile senza indugio”: doveva essere affidato a una comunità terapeutica.  Da tre anni stava invece in una cella, in attesa che i medici trovassero un luogo per curarlo. Dopo l’ultimo rinvio, non c’è la ha fatta più. Un compagno l’ha trovato con un lenzuolo avvolto intorno al collo, ormai senza vita, alle 3.45 di notte.

Dopo anni di dibattiti, finalmente una legge stabilisce una data per la chiusura degli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari): il 31 marzo del 2013. Ma a pochi mesi dalla dismissione, mancano ancora le strutture alternative capaci di ospitare i loro pazienti. Così in questi luoghi d’«estremo orrore», come li ha definiti il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, continuano ad essere richiusi ( e a volte a morire) malati di mente che potrebbero stare fuori, se solo ci fossero psichiatri, infermieri educatori in grado di prendersene cura.

Negli Opg vengono internati i folli che hanno commesso un reato. Nei sei Opg presenti nel nostro paese (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino,Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere) gli internati sono 1200. Il campionario di reati e casi è vastissimo. Condividono gli stessi spazi il marito che ha sterminato la famiglia in un raptus di follia, ma anche chi 20 anni fa si è spogliato sulla piazza della chiesa, o uno come Dedé, che per aver chiesto l’elemosina sulla tomba di Giovanni Paolo II e aver opposto resistenza alle guardie, si è fatto due anni all’Opg di Aversa. Sogetti che la legge continua a ritenere pericolosi, ma anche malati, la cui pericolosità sociale è cassata da anni che restano dentro perché fuori, i Dipartimenti di salute mentale non riescono a predisporre  percorsi di inserimento sociale, per manza di personale e servizi. In questi casi – e non sono pochi – il magistrato di sorveglianza proroga la cosiddetta misura di sicurezza . Una, due, tre volte. Chi entra in questo meccanismo, può finire intrappolato per la vita. Non sono stati pochi, infatti, i casi di ergastoli bianchi.

Nel 2010 la Commissione d’inchiesta parlamentare presieduta dall’onorevole Ignazio Marino ha denunciato le condizioni di estremo degrado in cui vertono quasi tutti gli Opg del nostro Paese. A parte qualche eccezione (Castiglione delle Stiviere e Secondigliano) negli altri casi edifici vecchi, corrispondenti a volte agli ex manicomi criminali costruiti durante il Fascismo e da allora non più ammodernati. Strutture sovraffollate, dove si sta in otto in celle da quattro. Ambienti sporchi con servizi igienici a vista. Carceri più che luoghi di cura in cui  «la somministrazione di farmaci è una forma di contenzione diffusa», e quando a placare l’ira non bastano le medicine, si può finire ammanettati mani e piedi ad un letto. Insomma, luoghi «inconcepibili in qualsiasi paese appena civile», per citare ancora il presidente Napolitano.

Proprio i risultati shock delle viste a sorpresa negli Opg, condotte dal senatore Marino, hanno portato il 17 febbraio 2012 ad approvare la legge che stabilisce il loro definitivo superamento entro il 31 marzo del 2013. Da quel momento in poi, secondo quanto scritto nella norma, i pazienti internati negli Ospedali psichiatrici giudiziari, che possono essere reinseriti nella società, (il 40% del totale) dovranno essere presi in carico dai Dipartimenti di salute mentale e affidati a comunità terapeutiche. Quelli con una pericolosità sociale tale da giustificare la detenzione dovranno essere ospitati e curati da nuove strutture. La legge stanzia anche i fondi: 120 milioni nel 2012, 60 nel 2013 per la realizzazione. Altri 28 milioni nel 2012 e 55 all’anno dal 2012 per la gestione.
Una prima bozza del decreto attuativo, definita a primi di giugno, specifica anche «le caratteristiche, le dimensioni e gli standard di sicurezza delle nuove strutture per i malati mentali che hanno commesso un reato ritenuti socialmente pericolosi».

Nonostante i passi concerti compiuti dalle istituzioni verso il superamento degli Opg, il futuro degli internati è, tutt’altro che certo. È quasi scontato, infatti, che il 31 di marzo non potranno traslocare tutti i pazienti nelle nuove strutture. Sarebbe, infatti, già un miracolo se per quella data le Asl, cui la bozza del decreto-attuativo affida il compito di realizzarle e gestirle, riuscissero a iniziare i lavori, dal momento che le Regioni difficilmente potranno spendere i soldi stanziati dal governo prima di due, tre anni. Ma non è il rispetto della data ad allarmare il mondo della associazioni di volontariato e delle cooperative sociali che da anni spinge per arrivare a questo risultato. Le preoccupazioni riguardano la natura delle cosiddette nuove strutture. C’è un dettaglio che insospettisce. La loro dimensione. Nella bozza si indica una capienza massima di 20 posti letto. Troppi per delle comunità terapeutiche che normalmente non superano i 6. I sostenitori della campagna StopOpg (alla quale hanno aderito anche molte sigle del mondo associativo di matrice cattolica) paventa il rischio che spuntino in ogni regione tanti mini-Opg, che dei vecchi ospedali-carcere, continuerebbero a condividere metodi e pratiche. Un esito modesto e insoddisfacente le denunce della commissione Marino e i pronunciamenti delle più alte cariche dello Stato. Qualcuno arriva anche  sospettare che ci sia in corso un’operazione un po’ gattopardesca. Infatti, nulla vieta al momento che le nuove comunità sorgano all’interno degli stessi Opg, trasformati con un semplice intervento di maquillage per rispettare almeno formalmente la legge. Resta, inoltre, l’incognita sugli ex internati, dimissibili, affidati a Dipartimenti di salute mentale. Negli ultimi anni le Regioni, a corto di finanziamenti, hanno tagliato i servizi sanitari territoriali, chiudendo comunità terapeutiche, licenziando psichiatri e infermieri. E soprattutto quelle obbligate dal Ministero della salute ai piani di rientro non potranno certo permettersi investimenti in un ambito, per altro, quello della salute mentale, poco popolare.  Insomma pare proprio che il 31 marzo non sarà un traguardo. Ma il punto di punto di partenza della lunga marcia per voltare definitivamente pagina.

giovedì 4 agosto 2011

La Svezia degli uomini ombra

«Non posso tornare in patria, ma nemmeno rimanere qui. Sono costretto a vivere come un’ombra». Quattro anni fa, Rajan Yousif, 25 anni, ha lasciato l’università di Mossul, città nel nord dell’Iraq dove vive una cospicua minoranza caldea. In Svezia sperava di studiare, trovare un buon lavoro e anche di potersi dichiarare apertamente cristiano, in un paese occidentale che ha fatto della laicità la migliore garanzia per la libertà di culto. Le cose sono andate un po’ diversamente. Le autorità svedesi hanno rifiutato per ben quattro volte la sua richiesta di asilo. «Oggi non ho diritto all’assistenza sanitaria né all’assegno sociale. Mi guadagno da vivere lavorando in nero per il ristorante di un mio connazionale e dormo da un amico», spiega al termine della funzione religiosa nella chiesa di San Giovanni a Södertälje, bella cittadina, orgogliosa della sua identità multiculturale, a 20 minuti di treno dal cuore di Stoccolma.
Da quando il governo conservatore di Fredrik Reinfeldt ha deciso di adeguare le politiche di accoglienza per i rifugiati agli standard più restrittivi degli altri paesi europei, di uomini ombra come Yousif ce ne sono migliaia in tutta la Svezia. Fino a qualche tempo fa, era sufficiente mostrare un passaporto iracheno all’ufficio dell’immigrazione per essere accolto come rifugiato. Dopo il giro di vite imposto dall’alleanza di centrodestra alla guida del paese, bisogna riuscire a dimostrare di avere ricevuto una minaccia specifica e individuale. Cosa che non è sempre possibile. La conseguenza è che, fra gli iracheni, una domanda su due è rifiutata. E molti pure di evitare il rimpatrio, si danno alla clandestinità.
L’arcivescovo metropolita della Chiesa Siriana Ortodossa, Abdulahad Shabo dichiara di poter affermare con certezza che «molti degli iracheni cristiani rimpatriati dalla Svezia sono stati uccisi per ragioni religiose» e accusa senza mezzi termini il governo svedese di non fare abbastanza per la causa del suo popolo. «In Medio Oriente non c’è uno stato dove i cristiani possono vivere al sicuro. Dopo la caduta di Saddam Hussein, l’Iraq è diventato un luogo pericoloso per chi non è mussulmano. Noi possiamo stare solo in Occidente. Cacciarci equivale a condannarci alla persecuzione».
Gli uomini ombra come Yousif sono la prova più evidente che qualcosa si è inceppato nel modello d’integrazione svedese ed è proprio a Södertälje, simbolo della melting pot scandinavo, che si vedono le crepe maggiori.
In questa bella cittadina di 85 mila abitanti, gli stranieri o i figli di genitori nati in un altro paese hanno superato il 42% della popolazione (più del doppio della media nazionale). Il primo gruppo etnico è costituito proprio dagli iracheni, attirati qui come i turchi, i siriani, i bosniaci, dagli stessi identici motivi: le generose politiche di accoglienza per i richiedenti asilo, i servizi di uno stato sociale di prim’ordine, il lavoro. Tre pilastri che hanno fatto di Södertälje la terra promessa per i profughi di tutto il mondo, ma che oggi sembrano vacillare.
Gli stabilimenti di uno dei principali produttori di camion e mezzi pesanti al mondo, Scania, e del colosso farmaceutico, Astra Zeneca, dominano il paesaggio. Le due aziende, da sole, danno lavoro ancora a oltre 14 mila persone. Tuttavia la crisi globale si è fatta sentire anche qui e a farne le spese sono stati soprattutto gli stranieri. Nel 2010 la disoccupazione ha raggiunto in città l’11%, mentre nel resto della Svezia è quasi tre volte più bassa.
All’ora di pranzo i maniaci dello jogging con i cardiofrequenzimetri al braccio corrono lungo il Sodertalje Kanal che unisce i laghi Mälaren e Östersjün. A soli alcuni chilometri di distanza, nel quartiere di Ronna, dove gli svedesi sono una sparuta minoranza, la gente mangia kebab sulle sedie di plastica all’ombra delle betulle. Nashuan Sulaiman, 42 anni, ingegnere civile e la moglie Donia Basheer, 38 anni, ingegnere elettronica, hanno avuto la fortuna di arrivare in Svezia prima che le porte del paradiso si chiudessero. Ogni mese l’assistenza sociale del comune passa loro un assegno di 11mila corone (circa 1.200 euro) che consente a questa coppia di pagare l’affitto di un dignitoso appartamento nel sobborgo. Hanno diritto all’assistenza sanitaria. Possono frequentare i corsi di lingua e di formazione professionale. Avendo ottenuto il riconoscimento all’asilo, non devono nascondersi da parenti e amici, per la paura di essere rimpatriati, come capita da qualche tempo a molti altri loro connazionali. Ma un lavoro ancora non ce l’hanno.
«La sola proposta che ho ricevuto è stata per un posto in nero come lavapiatti in un ristorante di un amico. Con la mia esperienza e i miei titoli, posso fare di più per questo paese», spiega lui.
Secondo le statistiche del Comune, un rifugiato politico impiega in media 6 anni per trovare un’occupazione; se è una donna, ancora di più. Ma, spesso, si tratta di lavori umili e non adeguati ai profili professionali dei nuovi arrivati, in genere più qualificati dei richiedenti asilo degli anni ’80 e ‘90. La conseguenza è che molti aspettano l’occasione buona, ma intanto gravano sul bilancio pubblico. «Sappiamo che questo è un problema – ammette in sindaco socialdemocratico Anders Lago – Dobbiamo impegnarci ad accorciare i tempi di ingresso nel mercato del lavoro, non respingere gli stranieri. Di loro abbiamo bisogno oggi e ancora più in futuro»
Non tutti però condividono la stessa incrollabile fiducia. Alle ultime elezioni dello scorso settembre, in Svezia l’ultra destra ha preso il 5,6% dei voti e per la prima volta nella storia del paese è entrata in Parlamento. A Södertälje gli xenofobi hanno fatto ancora meglio, raccogliendo il 10% dei consensi. E sui banchi dell’opposizione in consiglio comunale siede anche Marc Abramsson, 32 anni, un figlio dei programmi d’avanguardia della scuola multietnica. «Noi siamo contrari all’immigrazione di massa - chiarisce -. Vogliamo che la Svezia torni agli svedesi».

Francesco Chiavarini

martedì 5 ottobre 2010

Il matto dove lo metto?

Un senza dimora con disturbi psichiatrici, a Catania, costretto a vivere in una cabina dell’Enel abbandonata, sgomberato e in seguito persino multato “per danneggiamento di luogo pubblico”. Un altro clochard, a Milano, affetto da anni da una grave schizofrenia, rimpallato da un ospedale all’altro. Due casi drammatici accaduti, quest’estate, ai capi opposti della Penisola di fronte ai quali enti ed istituzioni hanno giocato un avvilente scaricabile. Due casi che sollevano la stessa domanda: chi si deve occupare dei matti che vivono in strada?

Figli di nessuno

La risposta, a rigor di legge, sarebbe semplicissima: dei senza dimora psichiatrici si fanno carico prima di tutto i servizi di salute mentale, le uniche strutture incardinate nel sistema sanitario nazionale dotate di professionisti in grado di effettuare diagnosi e approntare terapie. Poi certo gli psichiatri si potranno avvalere dell’aiuto di assistenti sociali ed educatori per rispondere ai bisogni materiali (casa e cibo) di queste persone che sono oltre che malate anche gravemente emarginate. Ma mai come in questo caso la teoria è distante dalla realtà.

«La cosa migliore che può accadere ad uno psicotico senza dimora è di finire, se c’è posto, in ospedale, nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, e poi tornare dopo 15 giorni di nuovo in mezzo alla strada– sostiene Ernesto Muggia, presidente onorario di Unasam, l’organismo che riunisce 150 associazioni di familiari di malati di mente. «Perché la verità – aggiunge sconsolato – è che questo sistema non funziona nemmeno per chi una casa e un parente più o meno prossimo ce l’ha. Figuriamoci se è in grado di occuparsi di chi è solo e non ha nemmeno un posto dove stare». Insomma un giudizio tranchant. Ma come è organizzato il sistema? Ed è vero che è così inefficiente?

La normativa prevede che ogni Azienda sanitaria istituisca il Dipartimento di salute mentale, vertice della struttura organizzativa, deputato a coordinare un’ampia rete di servizi. Di fatto, però, in Italia i Dsm sono solo 210. Per 167 il territorio di competenza coincide effettivamente con quello dell’azienda sanitaria locale, ma 103 (il 49%) servono una popolazione che può arrivare a 250mila abitanti e in altri 20 (9%) il bacino di utenza è di oltre 500 mila residenti. Tre Dsm servono addirittura una popolazione di oltre un milione di persone. Il panorama è dunque molto disomogeneo. Se poi si scende per i rami dell’organizzazione, la situazione diventa ancora più complicata. Nello scalino immediatamente più basso ci sono i Centri di salute mentale ( o Centri Psico Sociali, Cps, in Lombardia), vale a dire i servizi di base più importanti. I Csm sono 707 distribuiti su tutto il territorio nazionale. Con l’eccezione, però, del Molise dove non sono mai stati attivati. Ma questo sarebbe solo un piccolo neo. « La questione vera è che i Csm operano in maniera molto differente gli uni dagli altri» avverte Giovanna Del Giudice, psichiatra triestina dell’equipe di Basaglia. Secondo uno studio realizzato dal Dipartimento di salute mentale di Trieste, uno dei pochi così completo e esaustivo, “gli standard previsti dalle legge sono soddisfatti in una piccola parte dei Csm italiani”. Le cose vanno bene in Friuli Venezia Giulia, in parte della Campania e in Sardegna. Qui, secondo la ricerca, i Csm sono aperti 24 ore al giorno, 7 giorni su sette e hanno a disposizione per il ricovero delle persone con cui entrano in contatto tra i 6 e gli 8 posti letto. Ma sono isole felici. Altrove, invece, gli orari di accesso al pubblico possono essere anche di sole 2 ore al giorno. Non solo. In 93 Csm occorre la prescrizione del medico, in 452 bisogna pagare un ticket. Per non parlare delle liste di attesa. “Una persona che ritiene di avere bisogno di un contatto specialistico non urgente deve attendere mediamente quasi 8 giorni, ma può capitare che aspetti anche 2 mesi e mezzo. Sempre secondo l’indagine degli allievi di Basaglia solo un Csm su tre effettua le visite domiciliari. In un sistema costruito in questo modo il senza dimora con malattia mentale non solo non entra, ma non riesce nemmeno a bussare alla porta di ingresso, perché per lui quella porta semplicemente non esiste. «Avendo perso la residenza, il senza tetto perde anche il diritto alle cure del medico di base, a meno che il Comune non gli riconosca una residenza anagrafica, obbligo di legge come è noto largamente disatteso dagli enti locali nel nostro Paese – spiega Raffaele Gnocchi dell’area grave emarginazione di Caritas Ambrosiana -. Quindi, anche se il senza dimora fosse così consapevole da capire che ha un problema e che deve chiedere aiuto, non potrebbe avere accesso a tutti gli altri servizi». Insomma è fuori al primo turno. Di più, non partecipa nemmeno al campionato. E come lui, in realtà, rimangono esclusi centinaia di altri cittadini anche in condizioni sociali ben più favorevoli.

«Oltre 30 anni fa la riforma voluta da Basaglia introdusse giustamente la libertà di cura del malato con l’intento di superare la logica costrittiva dei manicomi - osserva Paola Soncini responsabile dell’area salute mentale di Caritas Ambrosiana -. Questo sacrosanto principio nella prassi è divenuto un alibi. Tranne rarissimi casi gli psichiatri dei servizi di salute mentale aspettano che i malati si rivolgano spontaneamente a loro; pochissimi, invece, escono dai propri ambulatori per offrire aiuto a chi ne ha bisogno. In questo modo, però, il risultato è che vengono abbandonati a loro stessi non solo i senza dimora ma anche i familiari di quei sofferenti psichici che rifiutano ogni cura». I Dipartimenti di salute mentale si difendono sostenendo che non hanno risorse sufficienti. Ed hanno certamente ragione se è vero che nel nostro paese c’è solo un operatore ogni 5mila abitanti, invece di uno ogni 1.500, il 30% in meno insomma di quello che aveva previsto lo psichiatra triestino nella riforma che porta il suo nome, come hanno sottolineato quest’anno i suoi allievi in un convegno nella città giuliana. «Ma la questione è anche culturale, perché là dove lo si è voluto, il modo per intervenire lo si è trovato», osserva la Soncini.

Psichiatria di strada

Proprio a Milano, ad esempio, grazie agli appelli dell’allora arcivescovo Carlo Maria Marini, agli inizi degli anni 2000 si riuscì a portare l’assistenza specializzata e professionale ai senza dimora con disturbi psichiatrici là dove questi si trovavano. Ancora oggi il progetto Diogene è uno dei pochissimi interventi di psichiatria di strada ancora operativi nel nostro Paese, riconosciuto anche dell’Organizzazione mondiale della sanità come progetto pilota per la presa in cura degli homeless con disagio psichico. Ogni settimana due unità di strada composte da un educatore e uno psichiatra assicurano almeno due uscite serali nelle zone della città dove si concentrano i casi di grave emarginazione: lungo i binari della stazione, su marciapiedi del centro cittadino.

Nei tre anni di sperimentazione gli operatori di Diogene, grazie alla collaborazione degli altri operatori della Casa della carità, di Caritas Ambrosiana, dei medici del Dipartimento di salute mentale dell’ospedale di Niguarda e del San Gerardo di Monza, hanno offerto aiuto a 130 persone, più della metà affetti da psicosi, quindi dai disturbi psichiatrici più gravi. «Il nostro più grande risultato è stato dimostrare che si possono curare le persone anche stando in strada», commenta la responsabile Vita Casavola, operatrice della Casa della Carità.

La scorciatoia del Tso

Il modello milanese non ha avuto tuttavia emuli. Nel resto della Penisola ci sono solo piccole iniziative dovute in gran parte solo alla buona volontà di qualche prete e di qualche piccola organizzazione di volontariato spesso legata alla Caritas diocesana. Progetti tanto piccoli e locali che è difficile recensire. In un panorama così desolante, non è un caso che periodicamente riaffiori la tentazione di affidarsi a misure coercitive. Alla commissione affari sociali della Camera giace una proposta di legge che unificando altri progetti introduce il Tsop: il trattamento sanitario obbligatorio prolungato. In pratica, la persona che rifiuta le cure sarebbe obbligata a sottoporsi ad una terapia di almeno 6 mesi in una struttura ad hoc. «Mentre oggi possiamo intervenire con i ricoveri coatti solo nella fase di acuzie della malattia, con il trattamento sanitario necessario o Tsop potremmo occuparci anche dei pazienti cronici che spesso proprio a causa della malattia non curata diventano clochard» sostiene il vicepreside della commissione, il deputato Carlo Ciccioli intenzionato a portare il testo in discussione entro la fine dell’anno. La proposta però non convince una larghissima maggioranza di psichiatri, che contestano il valore terapeutico di cure obbligate, e non piace nemmeno, tranne poche eccezioni, alle associazioni di familiari, che avanzano il sospetto che dietro questa riforma si nasconda un regalo alle case di cura private.

«Mi sembra una scorciatoia che in mano a sindaci sceriffo può diventare anche molto pericolosa», commenta Paolo Pezzana, presidente della Federazione degli organismi per i senza dimora. Il rischio di abusi non è poi cosi peregrino, se qualche settimana fa il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha auspicato «un trattamento sanitario realmente obbligatorio che tolga dalla vie delle città i vagabondi». Tutti i vagabondi, beninteso A prescindere dalla loro sanità mentale.

mercoledì 7 luglio 2010

Carcere, emergenza continua

Dopo le innumerevoli denunce delle organizzazioni di volontariato, delle associazioni di tutela dei diritti civili, dei direttori e degli agenti penitenziari, all’inizio di gennaio anche il capo del governo, Silvio Berlusconi, aveva riconosciuto che «la situazione nelle carceri è diventata intollerabile» e aveva annunciato al termine del primo consiglio dei ministri dell’anno il varo «di un piano per affrontare l’emergenza in modo definitivo». Da allora sono passati sette mesi, la popolazione carceraria nel frattempo ha raggiunto il record storico di 68.027 detenuti (secondo il Sappe), il numero dei suicidi ha toccato quota 32, altro primato. Tuttavia, quel piano è rimasto bloccato dai mal di pancia interni alla maggioranza.

Ora le possibilità che passi il ddl Alfano, che concede i domiciliari a chi deve scontare un anno di pena, restano appese ad un filo. Il problema a questo punto non è politico (almeno non solo), ma più strettamente economico. Per decidere, infatti, se proseguire l’esame in sede legislativa (ed evitare un passaggio in aula che richiederebbe troppo tempo), la Commissione Giustizia della Camera attende di sapere se c’è o no la copertura finanziaria per l’assunzione di nuove forze di polizia, una misura chiesta dalla Lega come condizione per dare il proprio assenso. Trovato il punto di mediazione politica, dunque, adesso bisogna trovare anche i soldi per realizzare un provvedimento che il ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, definì «peggiore di un indulto». Se, invece, non salteranno fuori i quattrini, difficilmente si potrà arrivare ad un conclusione prima della pausa estiva dei lavori parlamentari. Uno slittamento che avrebbe conseguenze drammatiche per le condizioni di vita reali delle persone in carcere, come denunciati già a giugno da Caritas Ambrosiana, che pur esprimendo qualche riserva su alcuni punti, aveva chiesto di approvare in fretta il decreto Alfano e dare un po’ di sollievo a una situazione che «col caldo estivo rischia di esplodere». Un dramma sottolineato, più recentemente, anche dallo stesso Papa durante il suo incontro con i rappresentanti dei detenuti di Sulmona, il carcere che vanta il triste primato dei suicidi dietro le sbarre.

Difficile pensare però che “il governo del fare” faccia qualcosa per le carceri prima che i parlamentari se ne vadano al mare . Per dare, tuttavia, un segnale di vitalità il ministro ha annunciato la costituzione di un’agenzia di collocamento per detenuti ed ex detenuti. L’iniziativa già sperimentata in Sicilia verrà estesa ad altre quattro regioni (Campania, Lazio, Lombardia e Veneto), coinvolgerebbe 6mila detenuti con un fine pena massimo di tre anni. Costoro sarebbero avviati e alla formazione e al lavoro esterno al carcere: 1100 nelle cooperative sociali, 150 nelle imprese, 550 avrebbero un contratto da dipendenti. Peccato che di registri, come quelli annunciati, in realtà già ne esistono diversi e fino ad ora sono serviti a ben poco.

venerdì 25 giugno 2010

Libere di prostituirsi. Anche con un braccio rotto

Grazie alle intercettazioni telefoniche, il gruppo dei carabinieri di Monza, è riuscito nei giorni scorsi a smascherare una banda di rumeni che controllava il giro di prostituzione su viale Sarca e viale Monza, zona nord Milano. Dalle conversazioni raccolte dagli uomini dell'arma emergono storie di una violenza agghiacciante. Pare che una delle ragazze fosse stata costretta a vendersi sulla strada anche con un braccio ingessato. Un'altra sarebbe stata tenuta sul balcone di casa a meno sette gradi, con i piedi in una bacinella d'acqua. Uno degli aguzzini raccomanda però all'altro di essere più prudente. "Riempila pura di botte, ma in bagno. Così ti fai scoprire", gli suggerisce. Bene, queste sarebbero le lucciole che, secondo l'opinione corrente, scelgono liberamente di fare sesso a pagamento, di dedicarsi, per libera scelta, ad un mestiere come un altro, anzi più redditizio di tanti altri, le ragazze di vita colpevoli di attentare al pubblico decoro e per questo multate, tra l'altro - dati del Comune di Milano - 10 volte di più dei loro clienti. Strano rapporto davvero, dal momento che se è vero che per ogni prostituta ci sono almeno 10 "utilizzatori" - per usare un'espressione venuta in auge qualche tempo fa - quella proporzione dovrebbe essere almeno rovesciata.
I volontari che sulla strada avvicinano le ragazze da sempre denunciano il loro sfruttamento. Ma sempre meno vengono ascoltati. Secondo Caritas Ambrosiana sono 7 mila le donne vittime di tratta in Lombardia. Le rumene rappresentano il 30% e il loro numero si è negli ultimi 7 anni decuplicato. Subito dopo vengono le nigeriane, che continuano invece ad essere la maggioranza in provincia, perché essendo per lo più immigrate clandestine, se fermate, rischiano di finire nei Centri di identificazione per il rimpatrio, quindi le organizzazioni che le controllano, per non rischiare di perderle, le hanno trasferite in luoghi meno visibili. Si tratta spesso di adolescenti: l'età media si aggira sui 24 anni (il che significa che molte sono minorenni) .
A parere di suor Claudia Biondi, responsabile dell'area grave emarginazione di Caritas Ambrosiana, di fronte al giro di vite delle forze dell'ordine, il racket ha reagito in due modi: ha allentato un po' la morsa per conquistarsi il consenso delle ragazze, oppure ha stretto ancora di più il giogo, per annichilire ogni capacità di reazione. Non è un caso che sono sempre meno le donne che trovano il coraggio di denunciare i loro aguzzini e di abbandonare la strada: appena il 10% chiede di essere aiutata a farlo.
Per approfondire: www.caritas.it

mercoledì 23 giugno 2010

Meno sbarchi, più clandestini

Un anno fa, di questi tempi, l’Italia non faceva che parlare di clandestini. Il Pacchetto sicurezza voluto dal governo, che istituisce il reato di clandestinità e inasprisce le procedure di espulsione, veleggiava verso la ratifica parlamentare. In mare, erano appena cominciati i respingimenti, verso le coste libiche, dei barconi dei disperati diretti verso Lampedusa, la Sicilia, le nostre sponde meridionali. Clandestini, vade retro: all’opinione pubblica si recapitava il messaggio che il tempo degli ingressi selvaggi era finito, e che finalmente il problema stava per essere debellato.

Dodici mesi dopo, gli sbarchi dei clandestini sono crollati: appena 29 nei primi quattro mesi del 2010. Secondo stime del ministero dell’interno, gli ingressi complessivi sono passati da 150 a 50 mila persone: tre volte di meno. Eppure gli irregolari soggiornanti in Italia sono sempre di più. Secondo una ricerca dell’Università Cattolica di Milano, sono aumentati di 126 mila unità rispetto al 2009.

La contraddizione, naturalmente, è solo apparente. Ed è indotta dalla rappresentazione mediatica del fenomeno. Una rappresentazione distorta, per cui si crede che gli stranieri arrivino in Italia affidandosi ai trafficanti di uomini, che li imbarcano sulle carrette del mare o li nascondano sotto i tir provenienti dai Balcani. In realtà tutti gli esperti sanno che i viaggi della speranza riguardano solo il 10% degli immigrati. La stragrande maggioranza di loro giunge in Italia, molto più semplicemente, atterrando a Malpensa o a Fiumicino con un visto turistico, acquistato a volte legalmente, altre a caro prezzo da organizzazioni che ci lucrano. Una volta nel nostro paese, cercano un lavoro che trovano, naturalmente in nero, dopo qualche mese. Quindi, scaduto il visto e non potendo dimostrare di avere un impiego regolare, diventano automaticamente clandestini. Condizione in cui rimangono per anni, fino a quando non hanno la fortuna di passare dalle forche caudine di una sanatoria, mascherata da decreto flussi.

Clandestini ma integrati

Questa è anche la storia dei 544 mila immigrati clandestini stimati dai ricercatori della Cattolica: più del 10% della popolazione straniera in Italia, che all’inizio dell’anno è arrivata a superare i 5 milioni. La quota dei clandestini è ora sensibilmente superiore all’anno scorso, quando era il 9,1%. Una differenza che corrisponde appunto a 126 mila unità. Costoro non sono certo arrivati ieri. Infatti la ricerca spiega che in media si trovano in Italia da tre anni e mezzo e hanno varcato la frontiera, nella stragrande maggioranza dei casi, legalmente. Tecnicamente sarebbero, dunque, degli irregolari. Ma, come i clandestini, secondo le nuove disposizioni di legge, non avendo un permesso di soggiorno valido, non possono rimanere nel nostro paese. Dovrebbero, in teoria, fare fagotto e tornarsene a casa.

Invece accade il contrario. Perché in qualche modo trovano casa, e anche un lavoro. Infatti, nonostante il proclamato “giro di vite” (pure questo disposto dal Pacchetto), c’è sempre qualcuno pronto a offrire alloggio e impiego, ovviamente fuori da ogni regola e controllo. Sempre dalla ricerca della Cattolica, emerge che i cosiddetti clandestini, hanno nel 47,3% dei casi un’occupazione, addirittura “stabile e continuativa”.

«Gli sbarchi sulle coste fanno notizia perché sono eventi drammatici, ma rappresentano la punta dell’iceberg – spiega il professore di sociologia, Vincenzo Cesareo, che ha curato la pubblicazione e a Milano dirige l’Ismu, l’Istituto sulla multietnicità, tra i più accreditati centri di ricerca –. I clandestini sono soprattutto overstayer (persone che si trattengono più del tempo dovuto, ndr). Questi non si imbarcano certo in Libia. E per questo nell’ultimo anno non sono stati affatto interessati dai controlli sullo stretto di Sicilia, che hanno consentito di bloccare quelle rotte, sebbene a costi umani e anche economici molto alti».

Non avendo, nulla da temere dai respingimenti in mare – perché dal mare non arrivano – gli overstayer, irregolari, clandestini (o comunque li si voglia chiamare) potevano comunque essere scoraggiati dal Pacchetto sicurezza, che (approvato a luglio 2009) tra le altre cose ha trasformato la permanenza irregolare in Italia del cittadino straniero da semplice irregolarità amministrativa a reato punibile con un’ammenda, oltre che con l’espulsione.

In realtà «quel reato è stato un deterrente più simbolico che reale», taglia corto diplomaticamente il professor Cesareo. Un esempio può aiutare a comprendere che cosa significhi esattamente “simbolico”. Dal 16 settembre 2009, data in cui è entrato in vigore il reato di clandestinità, ad aprile 2010, i procedimenti pervenuti all’ufficio del Giudice di Pace di Milano (l’autorità competente in materia) sono stati 116. Di questi 63 sono arrivati a conclusione (tutti con condanna). Ma solo 2 (due!) hanno avuto come esito l’espulsione. Numeri leggermente imbarazzanti, nella città del coprifuoco in periferia, dei controlli a tappeto sulle linee dei bus frequentati dagli stranieri, dei quartieri a numero chiuso per gli immigrati, degli asili nido negati ai figli degli irregolari. Dunque, tanto rumore per nulla?

La politica dei due forni

«Sono numeri che non mi sorprendono affatto – commenta Maurizio Ambrosini, sociologo dell’immigrazione all’Università Statale di Milano –. C’è una politica immigratoria per i giornali e le televisioni, che è quella delle espulsioni e della faccia cattiva, e una politica praticata nel paese reale, che è quella delle sanatorie. A dispetto delle apparenze, vorrei ricordare che il più grande “regolarizzatore di clandestini” è proprio Berlusconi: le ultime più grandi sanatorie furono fatte dai suoi governi, nel 2002 e nel 2009, l’anno scorso (limitata a sole colf e badanti). Voglio dire, insomma, che c’è una distanza enorme tra quello che si dice e quello che effettivamente si fa sull’immigrazione. Ed è una differenza che si spiega facilmente. La politica delle espulsioni costa ed è molto complicata da attuare: bisogna compiere accertamenti sugli irregolari per capire da dove provengono, pagare gli agenti e i voli per riaccompagnarli in patria, cosa tra l’altro possibile solo se esiste un accordo con il paese di origine. La politica delle sanatorie, invece, consente l’emersione del lavoro nero e, dunque, offre l’opportunità di fare cassa. Questa strategia è più conveniente per le finanze statali, ma indigesta all’opinione pubblica. Almeno da quando la caccia al clandestino è diventato un argomento di consenso».

Un esempio della “politica dei due forni” è Verona, città indicata dal ministro dell’interno Roberto Maroni come modello d’integrazione. Nonostante le arcigne dichiarazioni pubbliche, proprio il sindaco leghista Flavio Tosi quest’inverno ha aperto i dormitori pubblici anche ai clandestini e stretto un patto di non belligeranza con la Caritas diocesana: l’ente ecclesiale continui a fare quello che ha sempre fatto per accogliere gli stranieri, irregolari compresi, ma senza troppi clamori. «Il sindaco fa il sindaco. Poi lascia fare ai funzionari dell’assessorato ai servizi sociali. E con loro il nostro rapporto è ottimo…», dichiara don Giuliano Ceschi, direttore della Caritas di Verona.

Nella città scaligera e nella sua produttiva e ricca provincia, ciò che rischia di far saltare il patto sociale su cui si regge anche l’integrazione della popolazione straniera non sono il “Pacchetto sicurezza” e la “tolleranza zero”, bensì la crisi economica. «Qui, purtroppo, le aziende chiudono e lasciano a casa italiani e immigrati senza distinzioni», osserva don Ceschi.

La crisi, grande deterrente

Dal capo opposto dello Stivale, a Trapani, il direttore della Caritas diocesana racconta la stessa cosa. «Gli sbarchi si sono quasi azzerati. Ma i clandestini non sono mica scomparsi. è successo, semmai, tutto il contrario», sostiene don Sergio Librizzi. Con la crisi economica che ha colpito il settore agricolo, gli immigrati disoccupati sono precipitati nel cono d’ombra della clandestinità. «Chi era impiegato nelle serre del Marsalese e del Ragusano è stato lasciato a casa. Niente contratto, niente permesso di soggiorno. Per costoro la sola chance rimane il lavoro nero, che in Sicilia assorbe già il 60% della forza lavoro impiegata nel settore agricolo. E che certo non aveva bisogno di essere incrementato ulteriormente».

Mille chilometri più a nord, lungo la Val d’Arno, gli immigrati stranieri venivano invece assunti con contratti a termine in vivai, aziende vinicole e cantieri. Finora erano sempre riusciti a passare da un impiego all’altro, rinnovando di volta in volta i documenti. Adesso, invece, il turnover si è interrotto. E i più deboli non sono più riusciti a rinnovare il permesso di soggiorno, ritrovandosi clandestini dopo anni dall’arrivo in Italia. «Molti sono “irregolari di ritorno” – afferma don Mauro Frasi, responsabile dell’area immigrazione delle Caritas della Toscana. –. Si tratta di uomini in genere nordafricani, in Italia anche da 10 e 15 anni, che improvvisamente si ritrovano senza lavoro e senza il diritto a rimanere. Questi di tornare a casa non ne vogliono sapere. Quindi rimangono qui. Ma non potendo più svolgere impieghi regolari, o vanno in nero oppure, i più disperati, delinquono. E siccome sono bischeri, finiscono pure dentro. L’altro giorno ne ho incontrato uno che è stato arrestato. Aveva rubato due salami al supermercato...».

La crisi, insomma, come unico vero deterrente all’immigrazione. Regolare, irregolare o clandestina che sia. «Abbiamo già segnali di ritorni nei paesi d’origine, soprattutto in Europa», conclude Cesareo

pubblicato su Scarp de' tenis, giugno 2010

Per saperne di più: www.scarpdetenis.it

venerdì 18 giugno 2010

A Timisoara, la fuga degli italiani lascia le fabbriche vuote

Le bandiere, italiana e rumena, sventolano, una accanto all’altra. E già a centinaia di metri si legge la scritta “Incontro”, stampata a caratteri cubitali. Dietro questo monumentale arco d’ingresso si sviluppa la più grande area industriale di Timişoara, realizzata da italiani, la società Incontro Prefabbricati, per l’appunto, costola rumena del gruppo Lombarda di Montichiari provincia di Brescia. A giudicare dal numero dei capannoni, alle 15.30, orario di fine turno, dovrebbe esserci un gran movimento. Invece, dai piazzali i pullman se ne vanno via mezzi vuoti. Tra i lavoratori mancano all’appello, infatti, sicuramente i novecento dipendenti della Technic Development, la fabbrica rumena del produttore italiano di scarpe Geox. A giugno del 2009 l’azienda che con un fatturato di oltre 35mililioni di euro realizzava il 5% della quota complessiva delle “scarpe che respirano” vendute nel modo, è stata ceduta alla Vt Manufacturing, un fornitore di Geox. Il proprietario, un italiano, Vincenzo Tagliaboschi si era impegnato a riassumere tutto il personale. Dopo quasi un anno, non c’è più nessuno. «I dipendenti Geox? Sono andati via tutti. Spariti.», allarga le braccia il custode.

L’uscita di scena di Mario Poletti Polegato, avvenuta senza grandi clamori, segna la fine di un’epoca. Con il suo arrivo in Romania, la delocalizzazione del distretto calzaturiero di Montebelluna, iniziato negli anni ’90, aveva fatto un salto di qualità.

«I produttori di scarpe veneti, soprattutto della provincia di Treviso, furono i primi ad arrivare, subito dopo il crollo del regime di Ceauşescu e l’apertura delle frontiere – spiega Alessandra Scroccaro, giovane ricercatrice veneta che per l’università di Montpellier sta studiando gli investimenti italiani nella regione –. Ma sono stati anche i primi ad andarsene». La fuga sarebbe cominciata, infatti, già tre anni fa, anche se i dati ufficiali mostrano, al contrario, un piccolo ma costante aumento delle imprese italiane. «Quei numeri non sono attendibili, perché comprendono anche società fasulle nate solo per operazioni immobiliari - sostiene Gianluca Testa, 49 anni, ex responsabile in Romania della fabbrica di elettrodomestici Zoppas, ora manager di un’azienda di elettronica italo-inglese. «La verità è che nel 2007 con l’ingresso in Europa della Romania, la manodopera qualificata è emigrata in Italia, Francia, Germania e i salari dei lavoratori rimasti nel loro paese sono aumentati. Chi era venuto qui in cerca forza lavoro a basso costo o ha chiuso o è andato altrove, in Ucraina, nella Repubblica moldava. Ora per Timişoara è il momento delle grandi multinazionali. Ma gli italiani non sono più della partita».

nella foto: un pullman davanti all'ex stabilimento Geox di Timisoara

pubblicato su Avvenire, 30 maggio 2010