giovedì 4 agosto 2011

La Svezia degli uomini ombra

«Non posso tornare in patria, ma nemmeno rimanere qui. Sono costretto a vivere come un’ombra». Quattro anni fa, Rajan Yousif, 25 anni, ha lasciato l’università di Mossul, città nel nord dell’Iraq dove vive una cospicua minoranza caldea. In Svezia sperava di studiare, trovare un buon lavoro e anche di potersi dichiarare apertamente cristiano, in un paese occidentale che ha fatto della laicità la migliore garanzia per la libertà di culto. Le cose sono andate un po’ diversamente. Le autorità svedesi hanno rifiutato per ben quattro volte la sua richiesta di asilo. «Oggi non ho diritto all’assistenza sanitaria né all’assegno sociale. Mi guadagno da vivere lavorando in nero per il ristorante di un mio connazionale e dormo da un amico», spiega al termine della funzione religiosa nella chiesa di San Giovanni a Södertälje, bella cittadina, orgogliosa della sua identità multiculturale, a 20 minuti di treno dal cuore di Stoccolma.
Da quando il governo conservatore di Fredrik Reinfeldt ha deciso di adeguare le politiche di accoglienza per i rifugiati agli standard più restrittivi degli altri paesi europei, di uomini ombra come Yousif ce ne sono migliaia in tutta la Svezia. Fino a qualche tempo fa, era sufficiente mostrare un passaporto iracheno all’ufficio dell’immigrazione per essere accolto come rifugiato. Dopo il giro di vite imposto dall’alleanza di centrodestra alla guida del paese, bisogna riuscire a dimostrare di avere ricevuto una minaccia specifica e individuale. Cosa che non è sempre possibile. La conseguenza è che, fra gli iracheni, una domanda su due è rifiutata. E molti pure di evitare il rimpatrio, si danno alla clandestinità.
L’arcivescovo metropolita della Chiesa Siriana Ortodossa, Abdulahad Shabo dichiara di poter affermare con certezza che «molti degli iracheni cristiani rimpatriati dalla Svezia sono stati uccisi per ragioni religiose» e accusa senza mezzi termini il governo svedese di non fare abbastanza per la causa del suo popolo. «In Medio Oriente non c’è uno stato dove i cristiani possono vivere al sicuro. Dopo la caduta di Saddam Hussein, l’Iraq è diventato un luogo pericoloso per chi non è mussulmano. Noi possiamo stare solo in Occidente. Cacciarci equivale a condannarci alla persecuzione».
Gli uomini ombra come Yousif sono la prova più evidente che qualcosa si è inceppato nel modello d’integrazione svedese ed è proprio a Södertälje, simbolo della melting pot scandinavo, che si vedono le crepe maggiori.
In questa bella cittadina di 85 mila abitanti, gli stranieri o i figli di genitori nati in un altro paese hanno superato il 42% della popolazione (più del doppio della media nazionale). Il primo gruppo etnico è costituito proprio dagli iracheni, attirati qui come i turchi, i siriani, i bosniaci, dagli stessi identici motivi: le generose politiche di accoglienza per i richiedenti asilo, i servizi di uno stato sociale di prim’ordine, il lavoro. Tre pilastri che hanno fatto di Södertälje la terra promessa per i profughi di tutto il mondo, ma che oggi sembrano vacillare.
Gli stabilimenti di uno dei principali produttori di camion e mezzi pesanti al mondo, Scania, e del colosso farmaceutico, Astra Zeneca, dominano il paesaggio. Le due aziende, da sole, danno lavoro ancora a oltre 14 mila persone. Tuttavia la crisi globale si è fatta sentire anche qui e a farne le spese sono stati soprattutto gli stranieri. Nel 2010 la disoccupazione ha raggiunto in città l’11%, mentre nel resto della Svezia è quasi tre volte più bassa.
All’ora di pranzo i maniaci dello jogging con i cardiofrequenzimetri al braccio corrono lungo il Sodertalje Kanal che unisce i laghi Mälaren e Östersjün. A soli alcuni chilometri di distanza, nel quartiere di Ronna, dove gli svedesi sono una sparuta minoranza, la gente mangia kebab sulle sedie di plastica all’ombra delle betulle. Nashuan Sulaiman, 42 anni, ingegnere civile e la moglie Donia Basheer, 38 anni, ingegnere elettronica, hanno avuto la fortuna di arrivare in Svezia prima che le porte del paradiso si chiudessero. Ogni mese l’assistenza sociale del comune passa loro un assegno di 11mila corone (circa 1.200 euro) che consente a questa coppia di pagare l’affitto di un dignitoso appartamento nel sobborgo. Hanno diritto all’assistenza sanitaria. Possono frequentare i corsi di lingua e di formazione professionale. Avendo ottenuto il riconoscimento all’asilo, non devono nascondersi da parenti e amici, per la paura di essere rimpatriati, come capita da qualche tempo a molti altri loro connazionali. Ma un lavoro ancora non ce l’hanno.
«La sola proposta che ho ricevuto è stata per un posto in nero come lavapiatti in un ristorante di un amico. Con la mia esperienza e i miei titoli, posso fare di più per questo paese», spiega lui.
Secondo le statistiche del Comune, un rifugiato politico impiega in media 6 anni per trovare un’occupazione; se è una donna, ancora di più. Ma, spesso, si tratta di lavori umili e non adeguati ai profili professionali dei nuovi arrivati, in genere più qualificati dei richiedenti asilo degli anni ’80 e ‘90. La conseguenza è che molti aspettano l’occasione buona, ma intanto gravano sul bilancio pubblico. «Sappiamo che questo è un problema – ammette in sindaco socialdemocratico Anders Lago – Dobbiamo impegnarci ad accorciare i tempi di ingresso nel mercato del lavoro, non respingere gli stranieri. Di loro abbiamo bisogno oggi e ancora più in futuro»
Non tutti però condividono la stessa incrollabile fiducia. Alle ultime elezioni dello scorso settembre, in Svezia l’ultra destra ha preso il 5,6% dei voti e per la prima volta nella storia del paese è entrata in Parlamento. A Södertälje gli xenofobi hanno fatto ancora meglio, raccogliendo il 10% dei consensi. E sui banchi dell’opposizione in consiglio comunale siede anche Marc Abramsson, 32 anni, un figlio dei programmi d’avanguardia della scuola multietnica. «Noi siamo contrari all’immigrazione di massa - chiarisce -. Vogliamo che la Svezia torni agli svedesi».

Francesco Chiavarini

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